dimanche 23 novembre 2014

Estetica e culto del disastro attraverso l'informazione


Il tg della Costa d'Avorio (RTI1) è stata una sorpresa, è diverso nonostante le reali calamità, punta all'educazione, all'igiene e alla formazione. Le agenzie di informazione che rimbalzano su Facebook e i tg italiani invece non fanno che accreditare una narrazione del disastro. Non è soltanto un racconto continuo (morti, crisi economiche e catastrofi naturali), che si morde la coda, ma è qualcosa di molto di più: è un'estetica del disastro, un'apologia psicopatologica, un gusto per l'annullamento e l'eliminazione del prossimo che viene alimentato dai mezzi di informazione. Il pubblico assiste al nuovo cinema popolare apocalittico e se ne compiace, non si purifica come in una catarsi aristotelica, ma sguazza e parlotta, cinguetta e sghignazza, spera infondo di poterci finire dentro con occhiali quadridimensionali, magari lasciarci un pezzo del corpo. Quest'estetica è culminata proprio con l'11 settembre e la celebre frase di Stockhausen che parlò dell'attacco alle due torri come dell'opera d'arte più grande mai realizzata è stata un flash nel buio della coscienza collettiva. Pochi hanno capito Stockhausen, voleva sottolineare un mutamento antropologico definitivo e invece è finito ben presto nel novero dei pazzi scatenati. Quale sarà il prossimo mostro di cui parlare? Il virus ebola? E chi lo porteranno, gli immigrati? E quanti saranno questi disperati che vengono a intaccare il nostro presunto benessere? 
Paul Virilio, studioso francese, ha analizzato con attenzione il fenomeno dei disastri e degli incidenti, vedendo in questi l'evoluzione di una cultura occidentale incentrata sulla velocità (egli parla infatti di “dromologia”). Virilio come Stockhausen ha intuito altresì l'estetica che alimenta la ricezione di questi eventi tanto da creare un progetto di museo, “The Museum of the Accidents”. Resta il fatto che la nostra informazione quotidiana continua ad assomigliare più ad un thriller che alla vecchia carta stampata. Come si potrà frenare e correggere questa macchina che tritura la realtà? E poi cosa si nasconde dietro questo spettacolo? Perché il pubblico gode intimamente delle disgrazie altrui e di panorami lunari di macerie, bambini a pezzi sbattuti su internet (e magari creati a colpi di Photoshop)? Questo culto del disastro, sì perché è diventato un culto, rivela una pulsione collettiva alla morte, una pulsione irrisolta. I nostri avi sono partiti per la guerra, hanno vissuto l'esaltazione guerriera, il combattimento, il sangue e la distruzione più nera. E se sono ritornati l'hanno fatto con il pudore di non dover desiderare e riaffrontare tutto questo. La società contemporanea invece alimenta i propri schermi di un mare di sangue in cui realtà e fantasia si mescolano indistintamente. Thanatos, viviamo una tanatologia inconsapevole e continua che forse trova le sue origini nell'impossibilità di vivere una guerra vera oppure di orientarne l'essenza al suo contrario. E cosa dire del susseguirsi dei necrologi che vengono postati su Facebook? Quasi ogni giorno la scomparsa di una star provoca un moltiplicarsi di foto di commiato per l'ennesimo vicino di casa virtuale, in una fibrillazione nichilistica dove la vita è un lusso che non va in rete e non si accende con la tv. 

Max Ponte
14 agosto 2014
Pubblicato su "La Poesia e lo Spirito"

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